Da mercoledì 21 ottobre 2015 a venerdì 23 ottobre 2015, tre giorni all’Università di Pavia per un laboratorio di filosofia incarnata (embodiement) sul tema del dolore mettendo a frutto la ricerca di Giusi Venuti – filosofa e performer – su Etica e Arti Performative.
In particolare mercoledì 21 ottobre 2015 alle ore 16.00 presso l’Aula A del Dipartimento di Studi Umanistici (I piano Piazza Botta, 6) dell’Università degli Studi di Pavia Giusi Venuti terrà la performance “Il Sapere del Corpo. Emicrania variazioni sul tema”.
L’evento si svolge all’interno del “Laboratorio sul Dolore” a cura di Luca Vanzago, docente dell’Università di Pavia.
Il monologo si ispira liberamente al romanzo di Siri Hustvet, La donna che trema (Einaudi 2011) e ad altri testi poetici (Mariangela Gualtieri, Nina Cassian, Inge Müller) utilizzandoli come “pretesti” per mettere in forma una narrazione in “prima persona” sull’esperienza del dolore.
Mettendo alla prova di una soggettività incarnata la diffusa concezione meccanicistica della sofferenza, secondo cui il malato è semplicemente un “corpo rotto” da aggiustare, Giusi Venuti – filosofa e performer – vuole restituire densità al campo di ricerca sul rapporto mente-corpo.
Le indagini di Oliver Sacks sull’emicrania e quelle di Antonio Damasio sulla coscienza costituiscono il controcanto scientifico per far emergere il mistero del soggettivo. Il mal di testa è un fatto che scardina il vissuto e che si manifesta con evidenti segni di dolore, ma le sue cause si nascondono nel labirinto complesso della singolarità umana e si sottraggono a ogni pacificante “presa in cura”.
In un contesto culturale segnato dalla concezione di Salute propugnata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – “completo stato di benessere fisico, psichico e sociale” – e continuamente sedotto da una medicina ipertecnologica e spesso piegata a desideri narcisistici (Alexander Lowen; Daniel Callahan, Bessel van Der Kolk) “il mal di testa” si fa segno e simbolo del lato tragico e incancellabile di quel corpo che non è solo oggetto ma anche centro vissuto di esperienza del mondo. E lo strumento privilegiato che l’autrice sceglie per andare dentro la centralità di questo fatto non a caso è il Teatro. Come soffermarsi sul mistero del soggettivo se non partendo dal riconoscimento di ciò che storicamente nasce come Mistero? (Peter Brook)
Nella finalità forte che è quella che orienta non solo il monologo ma anche gli incontri laboratoriali che la Venuti condurrà dal 21 al 23 ottobre all’Università di Pavia il teatro non rimanda a stili di recitazione e non è una discussione tra persone colte su un tema oggettivamente drammatico, ma è l’innescarsi di quel processo emotivo che ci fa percepire come soggetti emozionali – ontologicamente imbarcati nel mondo – che incarnano una simbolica – parole, suoni, emozioni, colori, movimenti – che si manifesta attraverso una biologia.
Il teatro di cui l’autrice si fa organo di trasmissione, inviando fremiti tramite l’intelletto, vuole quindi capovolgere la logica dell’evidenza scientifica, aprire uno spazio di ricerca di significato e creare buone condizioni pratiche per relazioni empatiche. Senza questi passaggi capaci di coinvolgerci nell’unità del nostro essere al mondo e di liberarci dal cappio dell’indagine, solo teorica, c’è il rischio che affrontiamo anche l’esperienza del dolore con strumenti spietati e disumani perché imbrigliati dalla freddezza statica del cogito cartesiano. Il dolore è una provocazione ancor prima che una frattura, è un’esperienza che appartiene alla vita che siamo e ci chiede una risposta umana innescata dal respiro dell’anima (psychè), ma se – per ragioni culturali divenute abituali – restiamo confinati nella prigione asfittica dell’Io penso, se non ci disponiamo ad un lavoro artistico per rendere comprensibile ad altri ciò che abbiamo trovato, se con Husserl, pensiamo ancora che l’empatia sia un penoso enigma, rischiamo di andare verso quella contraddizione performativa che sembra connotare anche le ricerche umanistiche: sappiamo tutto sull’etica della cura e sulla sua matrice heideggeriana e poi di fatto siamo incuranti indifferenti a ciò che noi stessi proviamo (propriocezione), respingiamo ogni principio di alterazione e perdiamo con ciò stesso la possibilità di ogni riflessione scientifica profonda e allargata.