Sabato 4 luglio 2015 alle ore 17.30 presso l’Aula C – Cortile dei tassi dell’Università di Pavia si è svolta la presentazione dell’Archivio Fotografico Digitale dell’Università di Pavia. Dopo i saluti del Magnifico Rettore Fabio Rugge e di Giacomo Galazzo, Assessore alla Cultura, Turismo, Expo 2015, Legalità del Comune di Pavia è intervenuto il Prof. Leonardo Terzo dell’Università di Pavia, autore di alcune delle foto pubblicate nell’archivio.
Di seguito il suo intervento:
Quando pochi mesi fa mi è stato chiesto di contribuire all’archivio fotografico per il sito dell’università, la cosa mi ha fatto molto piacere, ma mi sono anche un po’ preoccupato. Del resto esisteva già ovviamente un archivio, e anche ben fatto, e dunque il mio compito non era rivolto all’esistente, ma, diciamo così, al futuro in corso. Per usare una terminologia in uso agli inizi della fotografia, come operatore del mio committente devo cercare, col fiuto proverbiale che si attribuisce ironicamente ai fotografi, di trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Ma anche questo è vero solo in parte, perché gli eventi in un contesto accademico sono quasi sempre opportunamente programmati.
La fotografia svolge una gran quantità di funzioni, ed è il risultato più avanzato dell’utilizzazione della vista da quando l’animale uomo non solo è uscito dallo stato ferino, ma è diventato bipede e ha dovuto riorganizzare la gerarchia dei suoi sensi. Così l’olfatto è stato declassato, e la vista è diventata il principale strumento di orientamento nel mondo.
Negli archivi fotografici si accolgono vari tipi di funzionalità: la documentazione del presente, appunto per orientarci nel mondo, e la documentazione del passato per vedere come eravamo, e infine una celebrazione espositiva di tipo museale, che non solo documenta come eravamo, ma anche come, nelle varie epoche, dal documento emerga anche la funzione estetica, cioè il fascino delle forme, che negli usi pratici si crede secondario.
Ora però viviamo nell’impero della comunicazione, che usa tutti i mezzi e tutte le funzioni per fini pragmatici, cioè per convincere il destinatario a fare o non fare qualcosa. In questa situazione mi sembra che l’uso dell’immagine si esibisca come informazione tecnica dentro la quale però avvengono i traffici più vari, da quelli etici a quelli economici, da quelli politici a quelli estetici.
Il mio compito è fare cronaca e anche pubblicità della cronaca. Ma cronaca di che cosa? Essendo un’Università, cronaca di tutto ciò che serve alla ricerca ma anche all’educazione. Cioè scienza e coscienza. E prima ancora, oltre agli eventi culturali specifici, si devono documentare le scelte concrete che la conduzione di un’istituzione così produttiva e prestigiosa comporta, come lo sviluppo dei vari poli che si materializzano in edifici, dislocazioni, relazioni con altri enti di ricerca, con nazioni e continenti, dall’Europa alle Americhe, alla Cina come abbiamo visto ultimamente.
Tutto ciò ha anche un’evidente dimensione simbolica che si manifesta in occasioni cerimoniali, ed ecco che la mia documentazione fotografica, più che a fotografare il bosone, per esempio, è rivolta a fotografare la ritualità celebrativa che è necessaria per far sapere che esiste il bosone.
L’industria pesante del nostro tempo non è più quella dell’acciaio, di quando Stalin, all’inizio degli anni 50, si chiedeva quante divisioni avesse il Papa. Invece siamo subito tentati di dire che l’industria pesante del nostro tempo è la tecnologia, e probabilmente lo è, ma è tecnologia contaminata dalla comunicazione. Peraltro comunicazione molto spesso è un eufemismo per pubblicità, perché anche le novità tecnologiche devono convincere gli investitori, fra cui i governi, con prospettive di ritorni economici e politici.
Di conseguenza mi chiedo se oggi non stia prevalendo l’idea di considerare il pubblicitario come l’intellettuale di punta, o se sia inevitabile considerare ogni intellettuale come pubblicitario.
Il singolo fotografo è un piccolo ingranaggio della comunicazione, tuttavia non è solo un tecnico. Possiamo considerarlo un intellettuale cosiddetto organico, cioè inserito in un contesto e in una realtà produttiva che lo sovrasta. Ma qui ciò in cui sono inserito e mi sovrasta è l’Università che non è un’impresa, bensì un’istituzione. E come ho già detto, è insieme scienza e coscienza, cioè fatta apposta per fornire alla forte integrazione dei suoi membri quella consapevolezza critica che nelle imprese non è il requisito più richiesto.
Può sembrare che mi sia allontanato troppo dal dire in che consista l’umile lavoro di chi deve mostrare in immagini ciò che facciamo qui dentro a quelli che stanno fuori. E del resto, dal punto di vista propriamente informativo nella specificità delle varie materie, i ricercatori stessi comunicano già ai loro colleghi nel mondo i dati essenziali.
Alcuni però nel secolo scorso in occasione del famoso scontro tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, biasimavano l’inevitabile specialismo delle ricerche. Per esempio accusando in particolare gli scienziati americani di essere geniali e intelligentissimi nei loro laboratori, e diventare invece dei perfetti imbecilli appena uscivano dai loro laboratori. Gli scienziati inglesi invece accusavano i letterati di non conoscere la seconda legge della termodinamica. E i letterati rispondevano, forse stupidamente: e chi se ne frega! In Italia tra gli altri se ne è occupato con acume ed equilibrio il filosofo Giulio Preti, pavese, con il libro Retorica e logica.
Ma oggi siamo nel 2015 e negli ultimi cinquant’anni questa drastica suddivisione fra le due culture è stata attenuata, anche se non abolita, da ciò che si chiama interdisciplinarietà. Oggi ogni ricerca spia opportunamente se qualcosa dei metodi di altri tipi di ricerca si possano utilizzare e trasferire anche nel proprio ambito.
Per fare due esempi di mia conoscenza: una mia allieva sta applicando la realtà aumentata che è un fatto visivo, alla linguistica, e ha pubblicato un libro in inglese intitolato Augmented Linguistics. Un’altra mia allieva sta studiando la poesia elettronica e la body literature: per un racconto che la scrittrice americana Shelley Jackson sta tatuando sul corpo di 2095 volontari. Lei lo ha chiamato un racconto mortale, perché morirà man mano che moriranno le persone tatuate. Tra parentesi Shelley Jackson è stata qui nel 1999 invitata da noi per un convegno sugli ipertesti che allora erano una novità problematica e ora sono così ovvi che molti li usano senza neanche conoscerne il nome.
Per concludere: la fotografia, come abbiamo detto, serve a tanti scopi, ma da sola servirebbe molto meno. Il grande successo della fotografia nella comunicazione dipende proprio dal fatto che è lo strumento che più si coniuga con tutti gli altri mezzi, accrescendone l’efficacia. Non è vero per esempio che una fotografia valga più di mille parole, ma mille parole si capiscono e si ricordano meglio se accompagnate da alcune fotografie. Così pure, le fotografie sono sempre accompagnate da alcune parole, senza le quali il significato di ciò che si vede in gran parte ci sfuggirebbe.